GIOVANNI BATTISTA PERGOLESI

Gli anni del Conservatorio

Questa pluralità di livelli della cultura musicale è una caratteristica tipica dell’ambiente musicale con cui il giovane Pergolesi venne a contatto in occasione del suo trasferimento a Napoli: nella città coesistevano e si intrecciavano senza alcuno sforzo dati della più profonda tradizione folclorica meridionale che l’altissimo numero di emigrati dalle campagne del regno aveva introdotte nella città, strati più recenti derivati dalla loro traduzione semicolta e colta operata da musicisti cittadini, su su sino alle espressioni più dotte e auliche coltivate dai musicisti professionisti in ambito sacro e profano. Lo stesso si riscontra anche nella tradizione teatrale, specie nella tradizione buffa, dove un sostrato legato alla festa popolare e alla recitazione dei saltimbanchi e dei comici dell’arte è ancora riconoscibilissimo nella tradizione dell’intermezzo e della commedia musicale in dialetto napoletano.

I Conservatori erano un naturale punto d’incontro di questi diversi strati culturali, non foss’altro per il fatto che i «figlioli» venivano utilizzati entro contesti sociologicamente diversissimi: dalle funzioni religiose alle processioni, dalle feste patronali alle celebrazioni civili; dalla strada, insomma, alla chiesa, alle case borghesi, ai salotti aristocratici, ai teatri. Non stupisce che Pergolesi abbia velocemente assimilato questa pluralità di linguaggi (così come assimilò alla perfezione il dialetto napoletano), e ne abbia tratto partito nelle sue opere.

Come si è detto Pergolesi entrò nel Conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo intorno al 1723. Si trattava dell’unico istituto (tra i quattro attivi a Napoli in quell’epoca) a dipendere direttamente dall’amministrazione ecclesiastica. L’ambiente era estremamente fertile di stimoli e di suggestioni, ma la vita doveva essere assai dura per la pesantezza dell’orario d’insegnamento e per la qualità di lavoro che gli allievi dovevano svolgere per assicurarsi l’istruzione e il sostentamento. E’ probabile che Pergolesi abbia dovuto pagare una tantum una tassa di ammissione, ma che fosse esentato dal pagamento di una retta, in quanto i registri superstiti testimoniano della sua notevole attività a servizio dell’istituto, prima come cantore, poi sempre più spesso come violinista. Nel 1729 Pergolesi (che nei registri compare come «Jesi», dalla città di provenienza) è chiamato «capoparanza», cioè direttore di un gruppo di sei, dodici o più scolari che andavano a suonare nei luoghi dove si chiedeva la loro opera. Suoi maestri furono Domenico De Matteis, per il violino; per la composizione, il vecchio Gaetano Greco sino al 1728, e il dotto quanto geniale Francesco Durante dal 1728 in poi. Determinante per il futuro di Pergolesi deve essere stato l’insegnamento, durato pochi mesi, di Leonardo Vinci, maestro dell’opera buffa napoletana e tra i musicisti più sensibili alla nuova poesia metastasiana.

La permanenza di Pergolesi in Conservatorio dovette durare sette-otto anni, sino al 1731. In quest’anno venne rappresentato nel Chiostro del Monastero di S. Agnello Maggiore, dimora dei Canonici Regolari del SS. Salvatore, il dramma sacro in tre atti Li prodigi della Divina Grazia nella conversione e morte di S. Guglielmo duca d’Aquitania. Si tratta di un’opera appartenente ad un filone tradizionale, una sorta di saggio di composizione mediante il quale gli allievi davano dimostrazione dell’acquisita maturità tecnica e stilistica. Emerge dalla compagine di questo dramma sacro, documento di estremo interesse di un genere drammatico che affonda le sue radici nella tradizione barocca, un personaggio napoletano, il Capitan Cuosemo, che si esprime in un corposo dialetto e in una mimica vivacissima, in una serie di numeri di irresistibile vis comica, che fanno da sfondo all’azione principale, di seriosa compunzione devozionale. Si tratta della prima prova di Pergolesi con lo stile dell’opera buffa. Quello stile che Pergolesi andrà via via raffinando nella delineazione dei suoi personaggi popolareschi appare qui in una dimensione estremamente corposa e sanguigna, che riflette la realtà pittoresca e plebea con la quale s’imbattè nei vicoli e nelle piazze di Napoli e che doveva segnare a fondo la sua immaginazione. E’ probabile che risalga a questo perido un mottetto di circostanza, pervenuto mutilo, dal titolo In hac die tam decora. Tutt’altro carattere ha un’altra composizione sacra, che la tradizione ascrive erroneamente agli esordi pergolesiani: l’oratorio La Fenice sul rogo, ovvero La morte di San Giuseppe, eseguito probabilmente presso l’oratorio dei Filippini, ambiente con il quale Pergolesi mantenne stretti rapporti sin dagli anni del Conservatorio. Qui, in un contesto estremamente più raffinato, impreziosito dall’uso di strumenti non consueti, come il flauto traverso, una viola «all’inglese» e l’arciliuto, usati con funzione concertante, Pergolesi rivela una concezione della religione intesa come estrema umanizzazione del sacro, come sottile scavo psicologico dell’esperienza religiosa: un atteggiamento che raffinato e come trasfigurato, sarà riconoscibile nelle estreme prove dei Salve Regina e dello Stabat Mater.

Dal punto di vista stilistico, queste composizioni sono un indice della stretta adeguazione di Pergolesi alle correnti più progressive della musica napoletana, una testimonianza del suo forte interesse verso il teatro musicale: i suoi modelli sono le partiture delle opere buffe e dei drammi seri di Vinci, Leo, Hasse, De Maio, che furoreggiavano sulle scene contemporanee. Questi impegnativi lavori segnavano la nascita di un nuovo grande compositore di teatro.

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