GIOVANNI BATTISTA PERGOLESI

La carriera artistica

La favorevole impressione suscitata da queste prove giovanili (unitamente a forti protezioni negli ambienti ufficiali) procurarono a Pergolesi, nello stesso 1731, la commissione di un’opera seria dal maggiore Teatro di Napoli, il San Bartolomeo. Come libretto venne scelto un vecchio lavoro di Apostolo Zeno, l’Alessandro Severo, rappresentato a Venezia nel 1716, che fu rielaborato con il nuovo titolo di Salustia. L’esordio sulle scene del giovane Pergolesi non poteva essere più laborioso. Infatti la stella della compagnia, il vecchio evirato Nicola Grimaldi, morì durante le prove dell’opera e Pergolesi fu costretto a riscrivere tutte le arie del protagonista per un nuovo interprete il castrato romano Gioacchino Conti; il segno della fretta e delle angustie di Pergolesi è confermato dal fatto che egli non ebbe probabilmente il tempo di metter in musica gli intermezzi comici (che in effetti non sono pervenuti). L’opera andò in scena solo nella seconda metà del gennaio 1732, apparentemente con scarso successo, dal momento che fu ritirata all’inizio del mese successivo. Ma la fama di Pergolesi doveva essere già ben solida, se nel settembre dello stesso anno egli mise in scena, presso il Teatro dei Fiorentini la sua prima commedia musicale, Lo frate ‘nnamorato, su libretto di Gennarantonio Federico, che doveva diventare il suo librettista preferito. Il successo dell’opera è testimoniato dalla sua ripresa (in una nuova versione, leggermente modificata) nel 1734 e, fatto del tutto eccezionale, nel 1748, dodici anni dopo la morte del musicista. Un documento contemporaneo ci testimonia come per tutto questo tempo le arie dell’opera fossero cantate per le strade di Napoli.

L’ascesa artistica e sociale di Pergolesi è testimoniata in questo stesso anno da due fatti. In primo luogo egli fu assunto al servizio del principe di Stigliano Ferdiando Colonna, che occupava una posizione chiave nella corte vicereale. In secondo luogo gli fu affidato dalla municipalità di Napoli il compito di comporre una messa e un vespro in onore di S. Emidio, sotto la cui protezione si era posta la città dopo una serie di disastrosi terremoti. In soli due anni di attività Pergolesi si era cimentato nei principali generi compositivi: il teatro serio, il teatro comico e la musica religiosa. Nel novembre del 1732 Pergolesi entrò come organista soprannumerario presso la Cappella Reale. Nella relazione con la quale si raccomandava la sua assunzione (recentemente ritrovata presso l’archivio di Stato di Napoli da Francesco Cotticelli e Paologiovanni Maione) si faceva riferimento alla «grande aspettativa» con la quale il mondo musicale napoletano seguiva la sua carriera di compositore, all’«applauso universale» che aveva salutato la rappresentazione de Lo frate ‘nnamorato e soprattutto al «bisogno che tiene la Cappella Reale di soggetti che compongono sopra il gusto moderno».

La solida stima della quale il musicista ormai godeva, è altresì confermata dalla commissione, per la stagione successiva, di una nuova opera seria, Il prigionier superbo (anch’esso basato sulla rielaborazione di un precedente vecchissimo libretto di Francesco Silvani). L’opera andò in scena il 28 agosto 1733 ed ebbe un lusinghiero successo grazie soprattutto ai suoi intermezzo La serva padrona, di nuovo su un geniale libretto di Gennarantonio Federico. Il culmine del consenso dell’ambiente sociale napoletano verso il musicista è rappresentato dalla sua nomina, nel febbraio 1734, a maestro di Cappella sostituto dalla «Fedelissima Città di Napoli», con diritto di succedere al titolare dell’ufficio, il celebre e anziano Domenico Sarro.

Ma intanto grandi avvenimenti sconvolgevano il regno di Napoli: il 10 maggio 1734 Carlo di Borbone, dopo una rapidissima guerra, faceva il suo ingresso a Napoli e il 16 dello stesso mese vi veniva incoronato re; gli Austriaci furono costretti a indietreggiare in Italia meridionale e in Sicilia. Buona parte della nobiltà napoletana e in particolare quella più legata agli Asburgo, si ritirò nel campo neutro di Roma, attendendo l’esito conclusivo della guerra. Tra i nobili più restii ad accettare la nuova situazione politica, era il principe di Stigliano, al cui servizio lavorava il Pergolesi, insieme con altri titolari che avevano concesso la loro protezione al musicista, come il duca Caracciolo d’Avellino (che si rifugiò addirittura a Vienna) e il Duca Marzio IV Maddaloni Carafa. Quest’ultimo e sua moglie, Anna Colonna, invitarono Pergolesi a Roma nel maggio del 1734. Il grande caricaturista Pierleone Ghezzi, incuriosito da questo giovane maestro di Cappella napoletano, schizzò in questa occasione l’unica rappresentazione autentica di Pergolesi che a noi sia pervenuta; in un primo tempo egli ne ritrasse dal vivo solo il volto, al quale più tardi (in un secondo disegno) aggiunse a memoria la figura intera. I due ritratti ci mostrano un giovane tarchiato, con un profilo dai lineamenti forti, vagamente negroidi; nel secondo, a figura intera, la gamba sinistra è rattrappita com’è tipico dei poliomelitici. Davvero qualche cosa di molto lontano dalle tante immagini idealizzate di pura fantasia che si sono accumulate dal Settecento sino ai nostri giorni.

Pergolesi diresse nella Chiesa di S. Lorenzo in Lucina (sede della Cappella Nazionale Boema) la sua Messa in fa maggiore, (una rielaborazione della precedente Messa per S. Emidio) in una splendida e fastosa esecuzione per soli, 4 cori e 2 orchestre, all’interno di una funzione in onore di S. Johann Nepomuk (il protettore della Boemia). Si trattava in sostanza di un atto scopertamente politico, un’aperta dichiarazione di fedeltà all’impero austriaco da parte della famiglia Maddaloni. L’esecuzione romana della messa, mentre da un lato costituì un grande successo per Pergolesi e la sua prima affermazione artistica fuori dei confini napoletani, rappresentò dall’altro una fatale incrinatura dei suoi rapporti con il nuovo governo borbonico. I suoi protettori, il duca di Maddaloni (che aveva preso il musicista al proprio servizio) e il principe di Stigliano furono eletti ben presto gentiluomini di camera di Carlo III, mentre il principe Caracciolo faceva sapere da Vienna «di non vedere l’ora di potersene ritornare»: cosa che fece giusto in tempo, per fare il 4 gennaio 1735, un’accoglienza «veramente alla reale» ad Avellino a Carlo III, che muoveva alla conquista della Sicilia. Certo era facile per questi grandi nobili napoletani trarsi d’impaccio. Ma nel clima di sospetti e di vendette che seguì al mutamento di regime, non si perdonò al musicista di aver prestato la sua opera per un’operazione dal chiaro sapore sovversivo. Con ogni probabilità gli accenni confusi ed oscuri di alcune fonti tardo settecentesche ed ottocentesche a pretese persecuzioni subite da Pergolesi non sono verosimilmente che l’amplificazione come al solito sproporzionata, di questa vicenda.

Il 25 ottobre 1734 un’opera seria di Pergolesi fu rappresentata per l’ultima volta nel teatro «ufficiale» di Napoli, il San Bartolomeo: fu l’Adriano in Siria su libretto di Pietro Metastasio, al quale venne abbinato l’intermezzo Livietta e Tracollo. Nonostante la presenza nella compagnia di un cantante della levatura di Gaetano Caffarelli, l’opera non ebbe grande successo; per la stagione successiva, su suggerimento della corte, al Pergolesi fu preferito un compositore di origine spagnola, il giovanissimo Davide Perez. In quale misura su Pergolesi pesasse negativamente in questo periodo il suo legame con la nobiltà filoaustriaca è emerso recentemente da alcuni nuovi documenti, che comprovano come l’impresario del Teatro San Bartolomeo, Angelo Carasale, si rifiutasse di pagare al musicista il compenso per la composizione dell’Adriano in Siria, adducendo a pretesto che i suoi protettori, il Duca di Maddaloni e il Duca Caracciolo di Avellino, non gli avevano versato l’affitto per i palchi nel periodo durante il quale avevano lasciato Napoli a causa della guerra: una motivazione del tutto pretestuosa, che sembra nasconderne un’altra di carattere scopertamente politico.

Pergolesi si rivolse pertanto all’ambiente teatrale di Roma; ai primi di gennaio del 1735 venne messa in scena al Teatro Tordinona la sua ultima opera seria, l’Olimpiade, di nuovo su un libretto di Metastasio. Nonostante le pochissime testimonianze coeve, sembra che l’opera, penalizzata da una messa in scena trascurata e dalla morte della Principessa Maria Clementina Sobieski Stuart (che ebbe come conseguenza la temporanea chiusura dei teatri romani) abbia avuto un’accoglienza sfavorevole da parte del pubblico.

Al ritorno a Napoli, la salute di Pergolesi deve avere subito un improvviso peggioramento ed è probabile che già nei mesi estivi del 1735 sia stato inviato dal Duca di Maddaloni a Pozzuoli per trovare sollievo dalla tubercolosi che ne andava minando il fisico. Ciò nondimeno egli proseguiva la sua attività compositiva. Nell’autunno del 1735 fu rappresentata al Teatro dei Fiorentini una sua nuova commedia musicale, ancora su libretto di Gennarantonio Federico, il Flaminio. Il lavoro, a giudicare dalle numerose riprese, anche fuori Napoli, dovette riscuotere grande successo. In questi mesi Pergolesi si accinse alla composizione di una serenata commissionatagli dal giovane Principe Raimondo di S. Severo per le sue nozze con Carlotta Gaetani dell’Aquila d’Aragona, programmate per il 1 dicembre 1735 a Torremaggiore, presso Foggia. Dal libretto (la musica è perduta) si desume che Pergolesi riuscì a musicarne – a causa della malattia – solo la prima parte. Sugli ultimi mesi di vita di Pergolesi non si hanno notizie certe; con ogni probabilità fu ospitato a Pozzuoli nel Convento dei Cappuccini, un istituto religioso posto sotto la protezione della famiglia Maddaloni. Qui attese probabilmente alla composizione delle quattro cantate da camera date alle stampe immediatamente dopo la sua morte e – secondo quanto vuole la tradizione – della Salve Regina in do minore e dello Stabat Mater. Quest’ultima opera gli sarebbe stata commissionata dall’Arciconfraternita della Vergine dei Dolori, che aveva sede nella Chiesa di S. Luigi di Palazzo dei Padri Minimi, in sostituzione dell’analogo brano di Alessandro Scarlatti. Pergolesi avrebbe terminato la composizione dello Stabat nei suoi ultimi giorni di vita e avrebbe consegnato il manoscritto all’amico Francesco Feo.

Pergolesi si spense il 16 marzo 1736 di «tabe ettica», cioè di tubercolosi, e fu sepolto nella fossa comune della Cattedrale di Pozzuoli; le poche cose che il musicista aveva con sé furono vendute per pagare i funerali, le messe funebri e altri debiti. Gli altri suoi averi passarono a una zia materna, Cecilia Giorgi, che si era trasferita da Jesi a Napoli qualche anno prima per assistere il giovane musicista e alla quale furono contesi da un altro parente, Giuseppe Maria Pergolesi, un sacerdote, zio paterno di Giovanmi Battista. La questione si risolse – come si è accennato più sopra – grazie ai buoni uffici del nobile jesino Cardolo Maria Pianetti.

Anche se Pergolesi, contrariamente a quanto asserirono quasi tutti i suoi biografi, ebbe amplissimi riconoscimenti del suo genio da parte dei contemporanei, la sua fama fu limitata sostanzialmente a Roma e a Napoli. Dopo la sua morte, l’intera Europa incominciò ad interessarsi con crescente curiosità ed entusiasmo alle sue composizioni. Nel 1736 furono stampate a Napoli quattro sue cantate (una delle quali era stata commissionata da Maria Barbara di Braganza, protettrice di Domenico Scarlatti); una nuova edizione ne fu eseguita nel 1738, cosa singolare dal momento che si tratta dell’unica edizione di cantate mai attuata a Napoli nel primo settecento. Lo frate ‘nnamorato, l’Olimpiade e il Flaminio ebbero numerose rappresentazioni, ma furono soprattutto i suoi intermezzi La serva padrona e Livietta e Tracollo ad ottenere il maggior successo con centinaia di rappresentazioni nei più sperduti angoli d’Europa. Della sua musica religiosa il Salve Rregina in do minore e lo Stabat Mater si imposero all’attenzione generale, grazie anche a un cospicuo numero di edizioni realizzate nei maggiori centri musicali europei, sia nella veste originale, sia in una quantità di adattamenti ad altri testi e a rielaborazioni di ogni genere. Già all’inizio del decennio 1740-50 Johann Sebastian Bach curò una trascrizione dello Stabat Mater adattandolo a una parafrasi tedesca del Miserere. Ma anche il resto della sua musica religiosa, le due grandi Messe e i Salmi furono copiati religiosamente in decine e decine di manoscritti, sia a fini esecutivi sia come preziosi esemplari da collezione. Alla metà del Settecento Pergolesi era già un mito: un mito che crebbe su se stesso degenerando presto in leggenda, perché la nuova enfasi posta sul genio e sulla personalità dell’artista creatore, l’interesse appassionato alla sua vicenda umana si scontrava con una mancanza pressoché assoluta di documenti e di testimonianze dirette. La vita di Pergolesi si era bruciata in cinque-sei anni di lavoro febbrile, in un contesto sociale che guardava al musicista con interesse e rispetto, ma che lo rilegava tuttavia all’interno di un ambito artigianale. In un contesto, inoltre, nel quale una straordinaria attività creativa vedeva la proliferazione di grandi personalità artistiche, che proprio a partire dall’epoca di Pergolesi, diffusero la musica italiana in tutti i maggiori centri europei. Della vita del musicista rimaneva solo qualche frammentario ricordo di chi assistette alla meteora della sua esistenza e della sua straordinaria carriera artistica; e di tali ricordi, spesso fraintesi e deformati dagli scrittori d’oltralpe, furono intessute le prime biografie, a loro volta stravolte e romanzate nell’Ottocento. La sua opera, affidata in massima parte alla tradizione monoscritta, perse di definizione, sia perché molte delle sue composizioni furono dimenticate (solo lo Stabat Mater e La serva padrona rimasero costantemente nella tradizione esecutiva) sia perché un enorme corpus di apocrifi venne spacciato come opera del musicista.

Solo in tempi recenti un imponente lavoro di ricerca, svolto in sede internazionale, ha recuperato la reale dimensione di Pergolesi: e la sua immagine autentica si è rivelata assai più affascinante e profonda di quella, cristallizzata e unidimensionale, consegnataci dalla tradizione. Le sue musiche non testimoniano solo una personalità creativa estremamente raffinata e complessa, ma ci restituiscono, tutt’intera, un’epoca e una società osservata e interpretata, per così dire, da tutti i punti di vista: la gestualità plebea e lo sberleffo del saltimbanco ma anche la tenera sentimentalità borghese della commedia musicale; lo sfarzo e l’aristrocatica malinconia del dramma per musica tardo-barocco e metastasiano, affidato alla pirotecnica abilità tecnica e alla sfrenata fantasia dei grandi evirati; la scatenata vitalità e la sottile schermaglia psicologica dei personaggi degli intermezzi; la solennità e l’imponenza delle grandi composizioni sacre; l’intimismo patetico delle musiche religiose da camera, nelle quali il sacro è inteso come fonte di esperienza emotiva e la divinità si rivela attraverso la tensione e la pienezza del sentimento; il pungente dinamismo ritmico delle musiche strumentali e l’artificio stilistico delle cantate da camera.

Pergolesi è tutto questo, e altro ancora: l’indagine della sua musica continua a rivelarci il magico caleidoscopio di una fantasia e di una capacità di analisi e di sintesi quanto meno straordinarie. Quanto alla sua vita, alla sua dimensione umana e psicologica, Pergolesi continua a nascondersi, inafferrabile, dietro le sue creazioni, come il beffardo e malinconico Pulcinella del geniale balletto che a lui volle dedicar Igor Stravinskij.

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